Viviamo in un mondo in cui la complessità è forse l’unico vero tratto comune delle nostre esperienze.

Nello scorrere la cronaca, o anche solo la bacheca di uno qualunque dei social network attraverso i quali sviluppiamo le nostre relazioni, veniamo sommersi da un numero enorme di domande, sul perché la realtà assuma una determinata forma.

Perché è così difficile la convivenza tra etnie e gruppi differenti?

Per quale motivo un gruppo di ragazzi, per strada, si accanisce contro un essere umano indifeso?

Quali sono le ragioni che spingono una moltitudine di persone a prendere, tutte assieme, una decisione smaccatamente errata?

E, soprattutto, quanto ci aiuterebbe una scienza che si occupasse di darci proprio le risposte a queste domande, quelle che scandiscono il nostro vivere quotidiano?

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La psicologia sociale

A dire il vero, esiste una disciplina scientifica che è nata proprio per questo motivo: cercare di capire le ragioni dei comportamenti umani nella società, partendo forse dal perché che, più di tutti, continua a risuonare nelle menti di tutti noi.

La Psicologia Sociale è nata, infatti, come disciplina moderna, all’indomani della tragedia rappresentata dalla seconda guerra mondiale, e da tutto il contesto che l’ha generata e accompagnata: il totalitarismo nazifascista e lo sterminio sistematico di esseri umani che questo regime ha perpetrato.

L’orrore non è stato l’unico sentimento suscitato da questo fenomeno; nella mente di persone normali, giudici, politici e, in questo caso soprattutto, scienziati, si è materializzata una domanda a caratteri cubitali e difficilmente ignorabili: perché?

Perché, non solo nell’accezione del come è stato possibile, ma anche del per quale ragione è accaduto.

La motivazione che ha spinto tanti scienziati sociali ad agire era proprio originata dall’obiettivo di soddisfare queste due domande, che, in seguito, si sono dimostrate fondamentali.

Come è stato possibile che intere popolazioni abbiano assistito in silenzio, spesso silenzio complice quando non si è declinata addirittura una complicità esplicita, al sistematico e organizzato sterminio di intere categorie di esseri umani?

Era davvero, come una prima spiegazione semplicistica ma, a suo modo, quasi tranquillizzante, sembrava suggerire, una questione di una personalità condivisa più sensibile alla violenza e all’autorità?

Per dirla con parole più semplici, se si sia trattato davvero un fenomeno terribile ma limitato ai confini del popolo tedesco (o italiano) perché più cattivo di altri e, quindi, più incline al cercare di sopraffare gli altri.

È stata questa la scintilla che ha portato gli psicologi sociali, dagli anni quaranta in poi, a interrogarsi sulle possibili cause dei fenomeni di malvagità socialmente diffusa.

Alcuni di loro, scampati allo sterminio, ai rastrellamenti e ai campi di concentramento, li hanno conosciuti da vicino, e hanno iniziato a studiarli appena giunti in paesi liberi.

Non è un caso che gli interrogativi dei primi studi nel campo si sovrappongano alle giustificazioni che hanno riempito l’aria dell’aula di Norimberga.

Può davvero un essere umano normale e non aprioristicamente malvagio arrivare a torturare a un altro essere umano solo perché gli viene ordinato da un’autorità? A quali condizioni?

È realmente possibile che persone non geneticamente cattive possano segregare dei loro simili perché la maggioranza degli appartenenti al loro gruppo lo fa? E fino a che punto ci si può spingere?

Cosa fa sì che noi ci riconosciamo in un gruppo al punto da discriminare chi non condivide questa appartenenza?

L’obiettivo non aveva e non ha niente a che fare con la necessità di giustificare il male. La Psicologia, come fa notare Philip Zimbardo, non è scusiologia.

Ma capire è, per gli psicologi sociali, l’unico modo per riuscire a comprendere, e per poter prevenire.

Arrivando a rendersi condo di quanto l’approccio totalmente individualista non fosse in grado di far luce sulle molteplici sfaccettature della realtà.

Così Stanley Milgram ha indagato fino a quali estremi ci possa portare l’obbedienza all’autorità; Henry Tajfel e Muzafer Sherif hanno studiato le origini della discriminazione tra i gruppi, Zimbardo ci ha spiegato fino a che punto lo squilibrio di potere tra i gruppi sociali possa sfociare in repressione e discriminazione violenta.

Studiare l’essenza del quotidiano

Ma, ovviamente, questo è stato solo il punto di partenza. Perché tutti questi studi hanno indagato un aspetto che permea tutto il nostro vivere quotidiano: quanto il contesto in cui viviamo, agiamo e pensiamo possa influenzarci.

La gran parte degli studi in Psicologia Sociale si occupa proprio di questo: l’influenza sociale, e le sue molteplici declinazioni.

Quanto, e a quali condizioni, il comportamento della maggioranza sia in grado di influenzarci; quali siano le modalità attraverso le quali la minoranza possa, al contrario, esercitare la propria influenza arrivando a modificare le posizioni della maggioranza; quali gli elementi su cui basiamo la nostra interpretazione dei comportamenti altrui; da cosa partono i pregiudizi, gli stereotipi o gli atteggiamenti, in genere attraverso i quali giudichiamo la realtà che ci circonda e a partire dai quali programmiamo le nostre azioni.

E, ovviamente, quali sono le strategie che si possono utilizzare per modificare questi atteggiamenti, e quali siano i confini della persuasione che può essere esercitata sulle persone, in campo sociale, politico, del marketing, e così via.

Sono state alcune delle tappe fondative di una disciplina che sta ancora progredendo, dopo aver studiato processi decisionali di singoli e di politici, e che è passata attraverso una moltitudine di metodologie, dagli esperimenti di laboratorio agli studi sul campo, per arrivare, adesso, a scambiare informazioni con le neuroscienze per approfondire anche i fondamenti neurofisiologici dell’empatia e degli scambi sociali.

Senza mai, però, potersi allontanare dalle strade, dagli uffici, dalle aule di studio, dagli stadi… da tutti quei luoghi, in pratica, nei quali gli esseri umani declinano la propria esperienza di vita.

Ed è il motivo per cui sarà interessante tenere questa rubrica, e spero leggerla. Per conoscere un po’ meglio la scienza che studia le nostre interazioni quotidiane.