Due mesi fa ha aperto a Londra il primo Museo dell’Empatia. Un’iniziativa del tutto singolare volta a promuovere sensibilità verso gli altri, presupposto indispensabile di interazione sociale, condivisione, integrazione.

L’empatia è il concetto cardine di questo progetto. Una risorsa straordinaria, riconosciuta da sempre come vantaggio evolutivo per l’uomo, in grado di aumentare impegno e interazione sociale, abbattere pregiudizio, conflitto e disuguaglianza. Instillare valori umani.

Una capacità di cui senza dubbio abbiamo particolare bisogno in questo momento della nostra storia, visti i temi sociali più attuali.

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Camminare nelle scarpe altrui

L’idea di questo particolare museo ci fa capire in effetti che è stata avvertita l’esigenza di uno spazio per comunicare e proteggere una risorsa preziosa che stiamo perdendo.

Di inventare un luogo di esperienze e condivisione itinerante – toccherà numerose città della Gran Bretagna e si concluderà in Australia – per comprendere cosa significhi entrare nei panni dell’altro, vedere il mondo attraverso i suoi occhi.

Try walking in my shoes, come suggeriscono i Depeche Mode in un loro brano. Quello che si può fare letteralmente in questo museo, indossando un paio di scarpe di sconosciuti come profughi, operai, vagabondi o banchieri della city e camminarci per un po’, ascoltando in cuffia la loro storia.

Un’esperienza simbolica, così come le proposte di film e libri offerte nel sito Empathy Museum, per spronare le proprie potenzialità empatiche, affinarsi nell’apprezzare punti di vista, esperienze e sentimenti diversi dai nostri.

L’empatia è l’arte di mettersi nei panni di un altro e di vedere il mondo attraverso i suoi occhi – riflette l’ideatore del progetto Roman Krznaric, ex docente di Cambridge, filosofo popolare in Gran Bretagna – E’ lo strumento più potente che abbiamo per capire la vita degli altri: l’Empathy Museum nasce proprio per questo.

Empatia e neuroscienze

Le moderne neuroscienze, con gli studi più recenti, hanno mostrato che la capacità di provare ciò che sente l’altro è sostenuta da basi biologiche. Sono stati identificati i famosi neuroni specchio e si è dimostrato che, dal punto di vista psicobiologico, soffriamo assistendo al dolore altrui così come quando lo viviamo personalmente, attivando le medesime aree cerebrali.

Dolore fisico ed emotivo inoltre condividono gli stessi circuiti neurali. L’assenza di empatia è stata osservata nei sociopatici, nei criminali violenti nei quali non si attivano le aree cerebrali necessarie per provare preoccupazione verso gli altri.

Si ritiene inoltre che i primi percorsi neurali dell’empatia si formino già nella prima infanzia. Sono le esperienze precoci di attaccamento a segnare il modo personale di stare con gli altri, diventare empatici.

E’ questa la palestra emotiva nella quale ci alleniamo capendo se i sentimenti sono accolti e compresi dall’altro, se i bisogni trovano risposta. Dove impariamo a sintonizzarci, a ritmare le relazioni in una reciprocità che sta alla base di ogni forma di amore.

Sono poi le esperienze successive e la consapevolezza di noi stessi a determinare il nostro potenziale empatico.

Connettersi con l’altro

Sentire l’altro però va oltre il comprenderlo, c’è bisogno di uscire dalla versione personale, dalla messa a fuoco egocentrica.

Connettersi all’altro, al suo mondo emotivo, alla sua realtà, collegarsi vuol dire essere in sintonia, intuire il suo sentire.

Un bluetooth tra mondi personali diversi attraverso il quale circolano e si scambiano liberamente sensazioni, ci si motiva e influenza grazie alle emozioni. Al di là delle parole.

E’ indispensabile in ogni relazione, permette di comprenderci profondamente, incontrarsi, essere coinvolti.

Quando non siamo attenti a ciò che gli altri provano probabilmente non lo siamo nemmeno verso noi stessi, ci trattiamo con superficialità o distacco. Siamo persi, confusi e lontani da tutti.

Disposti a conflitti, a difficoltà nella comunicazione, ad atteggiamenti contraddittori. Bloccati in un mondo individualista. Con gravi conseguenze a livello sociale.

In una sorta di disturbo da deficit di empatia – etichetta inesistente nella letteratura scientifica – la nostra cultura in effetti sembra privilegiare disconnessione, insensibilità, indifferenza a favore di autosufficienza e indipendenza.

In un mondo globalizzato e interconnesso paradossalmente manca il filo emotivo della connessione, la consapevolezza di essere tutti legati.

Eppure la scienza ci dice che siamo dotati di sorprendenti strutture neuroplastiche, possiamo riprogrammarci, cambiare, formare nuove connessioni.

Si può lavorare anche sull’empatia, addestrarla e rafforzarla. Uscendo dal nostro egocentrismo emotivo che distorce la comprensione degli altri a favore di quelle reti neurali che permettono di legarsi e amare le altre persone.

Allenandoci attraverso comportamenti prosociali. Affinando la nostra intelligenza emotiva e sociale.

Passando dal Museo dell’Empatia, per iniziare.

Brunella Gasperini per Psicologia24