Questo articolo, lo ammetto, è un utilizzo privato di rubrica pubblica.

Lo sto utilizzando per rispondere a una domanda che mi viene fatta di continuo, soprattutto in mesi come questo appena passato, in cui la cronaca sembra disseminata, ancora più del solito, di casi eclatanti e tragici, in cui le vittime sembrano essere diventate tali essenzialmente a causa della propria appartenenza a un gruppo: etnico, religioso, di genere.

I casi si moltiplicano, tanto che diventa difficile credere a pure coincidenze, in cui il movente principale sia la follia individuale.  Eppure c’è chi lo sostiene, chi continua a ribadire che sia la follia individuale, la barbarie personale, la causa scatenante.

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Follia individuale o sociale?

È davvero così, o la società ha un ruolo nel veicolare comportamenti, atteggiamenti, discussioni e, anche, atti criminali?

Il fatto che percorrendo le strade delle nostre città capiti, sempre più spesso, di sentire invitare gli stranieri a tornare a casa, o insultare persone di origine africana con l’epiteto di scimmia, è davvero indipendente dal fatto che nella nostra società, a partire dalle persone che hanno responsabilità e visibilità pubbliche, questa consuetudine sia diffusa e sdoganata?

La violenza contro le donne è realmente slegata dai messaggi che i canali di comunicazione sociale ci inviano, dall’insistenza con la quale, nel dibattito pubblico, si continua a ribadire la natura meramente ornamentale o estetica delle bamboline?

Le aggressioni omofobe nelle nostre città sono solo frutto dell’intolleranza individuale, o risentono delle campagne politiche e comunicative che sottolineano la natura sbagliata delle relazioni omosessuali?

La diffidenza nei confronti delle culture e delle religioni differenti dalla propria, prende le mosse solo dalla poca conoscenza dei singoli, o è alimentata dal messaggio mediatico che vede una prevalenza di scontri tra persone di credo differente, rispetto alle occasioni di dialogo?

Intolleranza: libero arbitrio e contesto

Per rispondere a queste domande, dobbiamo innanzitutto venire a patti con la tendenza degli esseri umani, a commettere un errore sistematico di giudizio quando cercano di capire le cause di un evento: quello di sottostimare l’importanza del contesto, sovrastimando, invece, le caratteristiche individuali.

Di suo, è una distorsione della realtà che ci consente di semplificare parecchio il mondo che abbiamo intorno, ed evitare di andare a ricercare altre fonti di informazione oltre a quella, immediata, del comportamento manifesto del singolo.

Anche perché, quando innalziamo il livello di analisi, vi è sempre la paura di fornire scusanti ai comportamenti negativi e criminali o, addirittura, di mettere in crisi il concetto stesso di libero arbitrio.

In realtà gli esseri umani, se da un lato non possono essere considerati come elementi passivi in balìa delle pressioni esterne, dall’altro non sono però indipendenti da ciò che il mondo in cui vivono fa arrivare loro sotto forma di messaggi riguardanti ciò che è accettabile o meno, e di ciò che, nella società in cui viviamo, può portare vantaggi, oppure svantaggi.

Sono queste le informazioni sulle basi delle quali le persone sviluppano i propri obiettivi, le proprie strategie, gli atteggiamenti e le opinioni, e cercano di prevedere le conseguenze delle proprie azioni.

Sono le fonti della comunicazione sociale, inclusi i messaggi e le informazioni veicolate dai media e dalle figure pubbliche, e i simboli che la costituiscono, sia verbali che non verbali (parole, gesti, immagini) a strutturare la rappresentazione cognitiva del mondo dei singoli individui, che costituirà la guida attraverso la quale essi cercheranno di orientarsi, stabilendo quali siano i comportamenti più utili, le opinioni più opportune, e le norme importanti da seguire.

L’influenza sociale

È l’analisi dei messaggi sociali che consente di provvedere a questi processi senza necessariamente dover sperimentare in prima persona tutte le singole opzioni.

Se un comportamento, nella società in cui viviamo, non è tollerato e porta a un risultato negativo per colui, o colei, che lo ha messo in atto, allora la probabilità che quel comportamento venga imitato da altri risulta considerevolmente minore.

Se l’insulto razzista viene comunemente accettato nella sfera pubblica o nei media, senza che vengano prese adeguate contromisure, aumenta la probabilità che quell’insulto venga ripetuto da un maggior numero di individui.

L’esempio sociale ha, in questo senso, la capacità di inibire o disinibire i comportamenti.

Questo accade anche perché le persone cercano costantemente di capire la realtà in cui vivono, utilizzando come fonte fondamentale di informazione il comportamento altrui.

Nei casi in cui non si ha ben chiara la situazione, non si è capaci di sciogliere i dubbi e le ambiguità riguardo quali siano i comportamenti o le opinioni giuste, l’influenza sociale agisce come un navigatore, fornendoci l’informazione in maniera immediata e semplice, e intervenendo a sciogliere i dubbi che ci impediscono di agire, o di pronunciarci.

Così, se abbiamo dei dubbi, per esempio, sulla convivenza possibile di due credi religiosi, o di due etnie, vedere l’opinione dominante, nei media o tra le persone che frequentiamo, ci aiuta a orientarci senza richiederci, necessariamente, lo sforzo di approfondire personalmente il tema.

E finirà per influenzare la maggior parte delle persone in un senso, o nell’altro.

Se i media smettessero di censurare le relazioni omosessuali, per fare un esempio, e le rappresentassero con costanza, diminuirebbe enormemente il numero di persone che le considera anormali.

Ma esiste anche un altro motivo per il quale l’opinione e il comportamento osservato nella società e nei media come maggioritario finisce per influenzare i singoli individui, ed è dovuto al più classico dei conformismi: quello che ci porta ad adeguarci alla norma dominante, sia essa esplicita come una legge o implicita, espressa cioè sotto forma di comportamento più diffuso.

La nostra società ci insegna, fin da piccoli, che deviare dal comportamento e dalla norma della maggioranza non è proficuo; non lo è per l’unica bambina, o bambino, escluso dai giochi dei compagni di scuola; non lo è per l’unico lavoratore che non si conforma al comportamento del proprio gruppo di lavoro.

Per questo motivo, le persone sono assai sensibili a quella che è la norma sociale dominante; cercano di capire, costantemente, quali siano i comportamenti accettati o meno dalla società in cui vivono.

E, qualora siano discordanti dalle proprie convinzioni intime, finiscono, spesso, per limitare queste ultime, comportandosi, almeno esplicitamente, come la norma richiede.

Questo fenomeno è talmente potente che gli individui arrivano a mentire persino durante la compilazione di questionari anonimi; è il motivo per il quale studiare i pregiudizi etnici è divenuto talmente difficile, negli anni passati, da richiedere lo sviluppo di nuove procedure di ricerca che consentissero di scavalcare il controllo consapevole delle risposte: perché le persone che avevano un alto tasso di pregiudizio etnico si vergognavano di esprimerlo, e cercavano di adattare le proprie risposte per renderle più socialmente desiderabili.

Questo effetto, ovviamente, è ancora più marcato nei comportamenti pubblici: i razzisti e gli omofobi  possono nascondere il proprio pregiudizio quando percepiscono che la società in cui vivono non lo accetta e tende a punirlo o a cercare di reprimerlo; se, al contrario, la società veicola costantemente messaggi che tendono a far considerare accettata e accettabile l’intolleranza come un’opinione fra le tante, gli individui che condivideranno queste idee si sentiranno a proprio agio nell’esprimerle in pubblico, sia sotto forma di opinioni che di comportamenti.

Renato Troffa per Psicologia24